I più anziani confezionisti raccontano che quando si partiva in camion per le fiere in giro per l’Italia, fosse salutata come una benedizione la foratura di un pneumatico di un concorrente, perché poteva significare prendere il suo posto in fiera (e per fiera intendiamo qualcosa tipo San Martino e non certamente il Pitti di Firenze). Questa mentalità ce la siamo portati nel tempo e il comparto industriale di Martina Franca non è mai riuscito a fare sistema, a organizzarsi in cluster, a diventare distretto vero, collaborativo, capace di affrontare il mercato interno e estero. Questa incapacità di fare sistema si è tradotta prima in delocalizzazioni selvagge, quindi in licenziamenti e miseria sul territorio. La Cgil un anno fa aveva denunciato che ormai sono poco più di trenta le imprese rimaste.
Detto questo, l’iniziativa presentata venerdì a Palazzo Ducale, la presentazione della pagina pubblicitaria acquistata sulle riviste che vanno sulle Frecce di Trenitalia e su Italo, in occasione del Pitti del 12 giugno, è lodevole. Per la prima volta dieci marchi della moda locale fanno sistema, almeno sulla carta. L’operazione costerà 7.000 euro, che si divideranno il Comune (3.500) e le aziende e ha il nome di “Martina is fashion“.
Non entriamo nel merito del valore di comunicazione di questa scelta, ma non possiamo non segnalare che in nome del marketing si rinuncia a metà nome della città, e “fashion” ha un gusto tanto retrò, che sembra quasi aspettarsi di vedere tra i marchi anche quello della Forrester Creations.
Non si può, però, soprassedere sulla questione legata alla responsabilità che alcune di queste imprese hanno avuto nella crescita economica del territorio. Più volta è stato segnalato che le scelte imprenditoriali di alcune di loro hanno causato disoccupazione e povertà e far finta di nulla non servirà certo a riportare al lavoro quelle decine di lavoratori che l’hanno perso. Appelli e allarmi lanciati sistematicamente dalla Cgil, a cui le porte del confronto con Palazzo Ducale sono ermeticamente chiuse dal 2012, preferendo sindacati più vicini e amichevoli, magari legati a qualche esponente politico della maggioranza, sindacati che non rompono le palline, e nel frattempo l’emorragia lavorativa aumentava. Dello splendore di un tempo non si ha che poche macerie, seppur fatte bene, ma che macerie rimangono. Palazzo Ducale, che è la casa dei martinesi ma non solo di quelli che si mettono la giacchetta e il pantalone col righino, dovrebbe badare più ai risvolti sociali che ai risvoltini. A Bruno Maggi, assessore che si è inventato questa operazione di comunicazione che bene fa al comparto, l’abbiamo fatto notare e ci ha risposto così: “Non posso entrare nel merito delle scelte imprenditoriali delle singole aziende, ma devo guardare tutto il comparto“. Una risposta ovvia, perché non tocca certo a Maggi decidere chi è buono e chi è cattivo, ma l’assessore non dimentichi che rappresenta anche l’ultimo dei disoccupati, magari qualcuno licenziato da un’azienda che fa parte dei magnifici dieci.
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