*di Vincenzo Salamina e Domenico Carriero
Ricorre quest’anno l’anniversario musicale di uno dei più raffinati cantautori italiani. Da “Oceania” a “Nina”, da “Sette fili di canapa” fino a “Guardalalunanina”, le sue composizioni evocano stati d’animo, immagini e visioni.
Mario, nel 2021 ricorrono i 40 anni dal tuo affacciarti sulla scena musicale italiana con “Oceania”. Come pensi di festeggiare?
Ebbene sì e continuo ad essere meravigliato di come un soggetto come me possa essere ancora qui a parlare delle proprie cose, della sua semplice opera, meravigliato perché mi piace parlare di noi e non di me. Per i festeggiamenti ancora non so, viviamo in una grande incognita che blocca tutto: avevo in testa di fare un bel giro nei teatri italiani però altri ne dovevo aver fatti alla fine del 2020, ma questa possibilità è stata negata da quello che stiamo vivendo. Mi auguro si possa tornare ad una normalità, potendo ricordare realmente quello che è successo, potendo ricordare le priorità della nostra esistenza: il rispetto di certe regole, il dare contributi più forti alla medicina, una maggiore attenzione al lavoro, cose fondamentali per il nostro Paese. Temo che, se passerà questo brutto momento, ci sia un liberi tutti, scordandoci il passato: non è così che si fa crescere un Paese, ma speriamo che qualche mente illuminata possa ricordarci questo.
“Quanti diamanti avrà il tuo inverno, ombre di lupi alla finestra, aghi di pino alla tua porta”: così iniziava “Oceania”. Quale era il vero significato di questa canzone?
Intanto parto dal presupposto che le canzoni non devono spiegare le cose in modo accademico, ma devono evocare stati d’animo, immagini, visioni. “Oceania” passò come canzone d’amore, mentre io, quando l’ho scritta, pensavo ad un mio amico che era partito per tentare di fare una prestigiosa scuola di cinema in America, per cui parlavo di cose pseudo esotiche. E’ quindi una canzone di amore per la speranza: quelle parole me le ricordo molto bene perché erano dettate dalla volontà di crescere in fretta in un periodo in cui del futuro non si aveva ancora un’immagine ben definita.
Questi 40 anni sono stati anticipati da un bel regalo, il tuo primo DVD concerto live accompagnato da un CD singolo con due brani, “Guardalalunanina” e l’inedito “Stanotte ho fatto un sogno”. Parlaci di questo DVD.
E’ stato registrato qualche giorno prima che si chiudesse tutto quanto, col primo lockdown: abbiamo avuto la ventura di fare questo concerto, che stavamo portando a spasso per l’Italia, in un luogo meraviglioso in riva al Lago di Garda. In concomitanza di questa futura ricorrenza dei quarant’anni, mi piaceva regalare qualcosa di inedito, in quanto non avevo mai registrato un concerto dal vivo. Con l’aggiunta di “Guardalalunanina” e “Stanotte ho fatto un sogno”, ho tentato di chiudere un capitolo per poi aprirne altri in futuro. Già nel 2019 avevo pubblicato un libro-cd, “Guardalalunanina”: ho rivisto e corretto, da un anno a questa parte, molte cose del mio passato e perché no, era bello proporre il cd così come le canzoni sono nate, chitarra e voce. E’ stato come aprire un cassetto dal quale escono belle immagini del passato, immagini di quello che facevo nel passato: racconti, scritti, acquarelli. Ho tirato fuori un po’ di scartoffie, un atto di grande affetto anche verso me stesso e non solo verso chi mi segue.
I due inediti sono accomunati dall’amore per il proprio futuro, tua figlia Nina, e per il proprio passato, i tuoi genitori. Ci parli di questi due brani?
“Guardalalunanina” è la cronaca di un parto al quale ho assistito, ed è la cronaca di un padre metafora di tutta l’inadeguatezza dei padri quando assistono all’unico vero miracolo, quello della vita che nasce: mi sono fatto tenerezza da solo. Se un uomo assiste ad un parto comprende quanto nello sforzo tenace di una donna sia la vera forza dell’umanità. Ho parlato di questa faccenda qui per la prima volta, così come ho parlato del ricordo dei miei genitori, perché penso che oggi manchi la realtà dei sentimenti. Viviamo un’epoca molto confessionale dove tutti, pur di andare in televisione, si abbandonano alle cose più miserabili della propria esistenza, dicendo qualunque miseria loro o dei loro amici. Si è dimenticato il verso senso della condivisione ossia parlare delle proprie emozioni cercando di crescere assieme a quelle. Mi sono permesso di tentare questa seconda strada, mediante la voglia sorridente di ritrarre i propri genitori, quando non ci sono più, in un momento domestico della propria esistenza. E’ una cosa che mi dà molta tenerezza.
Tu hai più volte raccontato i tuoi genitori: la canzone che portasti a Sanremo 1984, “Nina”, aveva un testo ispirato dalle loro vicende reali quando si conobbero durante la seconda guerra mondiale; dedichi anche il libro a tua madre “che non mi ha mai impedito di volare, ed è sempre stata dalla parte dei miei sogni”. Quanto sono stati importanti i tuoi genitori nella tua formazione come artista?
Sono stati fondamentali perché non solo mi hanno lasciato seguire certi sogni ma anche perché non mi hanno mai contrastato neanche con dei boh sospesi, che sono più micidiali di una negazione. Ora che sono diventato genitore da dodici anni, penso che la funzione del genitore sia quella di accompagnare e mai decidere per il figlio.
“Guardalalunanina” esce in un elegante cofanetto contenente anche un tuo libro. Non è un romanzo e non è un’autobiografia. Allora cosa è?
La sensazione che ho ricevuto nel momento in cui mi è stata proposta questa cosa è stata quella di aprire un cassetto e vedere cosa contenesse: ci sono spartiti, pseudo ritratti del mio amico bassista Dino Cappa; ci sono dei racconti dato che quella di scrivere è stata una mia smania ed esigenza. Ci sono acquarelli che facevo negli anni settanta. Mentre li ho raccolti per metterli all’interno di questo libro, ho visto le date e queste vanno indietro di molti decenni. Questo libro è nato dalla voglia di regalarmi un ricordo di tutto il viaggio fatto fin qui, e speriamo tra quaranta anni di farne un altro. Una raccolta di ricordi che non ha la presunzione di essere una biografia! La copertina di Guardalalunanina è un piccolo acquarello in cui ritraggo una bambina. Il mio tentativo di scrittura nelle canzoni è quello di evocare immagini, come accaduto ad esempio in Oceania, e questo credo di averlo tratto dal disegno e dalla voglia che ho sempre avuto di fotografare le cose, di riprenderle, perché una semplice immagine evoca emozioni più forti di un film infinito o di un pezzo strumentale complesso. Chi fa il mio mestiere è un allineatore di parole. Questa attitudine all’arte e al disegnare è venuta spontaneamente. All’inizio ci può essere un’attitudine che deriva da quello che sei e quello che senti, ma poi devi essere fortunato a fare degli incontri che sollecitano questa dote. Nella mia vita professionale ho incontrato persone che mi hanno dato tanto, in primis Lilli Greco, grande produttore artistico di nomi strafamosi, uomo di rara sensibilità, che purtroppo non c’è più, che ci ha insegnato cose semplici ma importanti. Lui mi diceva che spesso si può imparare molto di più da una semplice cena fatta con amici intelligenti piuttosto che da una lezione con tanto di cattedra e di atmosfera cattedratica. Le lezioni stradarole che ti dà la vita sono da capire, da vedere e da studiare nello stesso modo perché possono essere estremamente importanti. Mio padre, passato alle cronache per essere pittore famoso, mi ha insegnato varie cose della pittura, ma anche il desiderio di capire e vedere il paesaggio. Noi abitiamo il paese più bello del mondo, ma facciamo a gara a non saperlo, ad andare nei posti più esotici possibile, come se fosse da burini passare le vacanze in Italia. Prima di prendere aerei cerchiamo delle meraviglie a chilometri zero che ne abbiamo tantissime!
Come afferma Vincenzo Mollica nella prefazione del volume, “Castelnuovo è un grande narratore di piccole storie, un favolista che sa giocare con i sogni. Le sue storie si possono considerare dei frammenti cinematografici perché della settima musa hanno quella capacità misteriosa di ammaliare lo spettatore.” Il libro contiene tante di queste scene di vita quotidiana che hai interiorizzato e riversato nella tua arte.
Non puoi scrivere se non vivi. Nascere e vivere in una città come Roma significa un po’ assaggiare l’universo in quanto è una città talmente particolare che nei suoi millenni di storia ha visto i personaggi migliori e peggiori; ha visto tutto, l’universo e la parrocchia, perché Roma è tutto questo. Sono nato in un rione popolare, Trastevere, che di questa Roma è la quintessenza. Da bambino non ci sono mai stati problemi razziali perché Trastevere è un posto abituato da sempre a contenere le anime di tutti; quando nasci in un posto così sei per forza votato alla unificazione degli spiriti e delle anime delle persone che vedi. Questo mi ha aiutato a familiarizzare non solo col futuro ma anche col prossimo e ho cercato di riversare quello che ho visto in questo lavoro. Basta essere ascoltatori e osservatori in un posto come Trastevere per avere uno spaccato del mondo.
Nella scaletta di “Guardalalunanina” hai voluto omaggiare due grandissimi colleghi: Goran Kuzminac e Rino Gaetano. Perché la loro scelta?
In un ambiente dove tutti si definiscono amici, anche se non lo sono, posso dire di essere stato molto amico di Goran e abbastanza amico di Rino. Rino era già Rino Gaetano quando stavo cominciando la mia carriera. Mi colpì moltissimo il fatto che il mio primissimo spettacolo dal vivo davanti ad un pubblico coincise con l’ultimo spettacolo di Rino Gaetano: eravamo assieme sullo stesso palco. Si trattava di uno spettacolo, ripreso da Rai 3, che RCA organizzava la domenica mattina in un teatro tenda a Roma. Quella volta mi ricordo che Rino fu carino con me: io esordivo e tradivo una certa ansia e lui mi spiegò una filosofia alla buona molto romana che mi aiutò molto. Ho portato “Aida” nei miei spettacoli perché mi è sempre piaciuta. Con Goran eravamo molto amici, abbiamo fatto assieme un Q-concert, un’intera tournée di un anno: ogni giorno eravamo in giro a suonare io, Goran e Marco Ferradini e tutti i musicisti, tra i quali Tony Cicco della Formula 3, alla batteria, Mario Schilirò, alla chitarra elettrica, quindi il fior fiore dei musicisti. Ma le vere storie non sono solo quelle sul palco ma quelle che si snodano durante il percorso, nelle cene, negli alberghi perché sono storie da camionisti privilegiati ma anche molto semplici, che parlano di ragazzi che avevano molta fame di futuro. Il viaggio spesso si tramutava in un autentico calvario: siamo arrivati nei posti più improbabili e questo trasforma il nostro lavoro in una grande avventura, ed è un grande privilegio, ed è per questo che bisogna parlare soprattutto in modo collettivo e non privato e personale.
Un Q-concert in cui vi esibiste anche nelle caserme.
I primi dieci concerti li facemmo all’interno delle caserme che si aprivano per la prima volta al pubblico, dato che fino ad allora costituivano un mondo a parte. Noi rispondemmo in modo entusiasta alla proposta del Ministero degli Interni. La sera succedeva che le persone entravano in una caserma per assistere al nostro concerto; ricordo le storie dei soldati che conoscemmo, andavamo in giro con i furgoni dell’esercito, i nostri collaboratori erano soldati. Quei ragazzi durante la vita li ho rivisti, con le loro famiglie, e tutto questo fa la vita di un musicista. Ho un bellissimo ricordo di quel Q-concert perché al suo interno c’era la volontà di far capire quello che volevo dire con le canzoni.
Molti artisti scrivono parlando di tematiche sociali importanti, sperando o credendo nel potere della musica. In cosa e quanto la musica può aiutare a cambiare la società?
No, no, la musica non cambia nulla come non cambia nulla nient’altro. Dentro dobbiamo avere un processo di crescita mentale: la nostra anima si deve espandere per ricevere anche la musica, la bellezza. Cosi diventeremo persone migliori. Dobbiamo tentare di far capire ai ragazzi che meravigliarsi non è solo una cosa da bambini: gli antichi greci dicevano che la meraviglia è l’inizio del sapere. Se non ci si meraviglia più significa che non si sa più nulla. La musica, il paesaggio, la pittura, la poesia aiutano ma prima di accedere a queste possibilità dobbiamo crescere come persone, fermo restando le vere urgenze che questo virus ci ha fatto capire. Dobbiamo prima essere noi capaci di ricevere questi messaggi per poterli trasferire agli altri.
Negli anni settanta frequentavi il Folk Studio a Via Garibaldi 59, vera e propria fucina della scuola cantautorale italiana ove nel 1962 si esibì uno sconosciuto Bob Dylan. Che ricordi hai di quel periodo?
Frequentavo il Folk Studio da studente: io non ho mai suonato lì per ragioni anagrafiche, ma sia il Folk studio di Via Garibaldi che l’altro in Via Gaetano Sacchi mi hanno visto come ascoltatore tutte le sere, perché io abitavo a trenta passi e per me era molto semplice raggiungerlo. E’ vera la cosa di Bob Dylan, è vero che si respirava quell’aria che mi piacerebbe respirassero i giovani di adesso: c’era una grande fame di futuro e si sentiva che si stava uscendo da periodi bui ma c’era una grande speranza di familiarizzare col futuro, cosa che oggi si sente di meno. Il futuro dobbiamo fabbricarlo nel presente, giorno dopo giorno. Il Folk studio in questo senso è stato bellissimo: andavamo là con gli amici perché c’era questa voglia di esprimersi in un modo nuovo, ognuno alla propria maniera, e quando si tornava a casa ognuno tentava di esprimere le proprie cose nella propria stanza. E’ stata una grande sorgente di emozioni di esperienza.
Dopo il successo di “Oceania”, arriva “Sette Fili Di Canapa” che darà anche il titolo al tuo primo album prodotto dall’amico Amedeo Minghi e la tua partecipazione al Festival di Sanremo 1982. Una canzone con un testo quasi incomprensibile! “Sette fili di canapa, un Abele da uccidere, sette medici a tavola, sette Cristi a Follonica, un ateo, sul Sinai, sette topi sull’edera, un cavaliere giovane preso da una tagliola”.
Sì un testo che non fu capito tanto che qualcuno aveva sparso la voce che potesse essere un’ode alle droghe per cui, prima di cantare a Sanremo, la casa discografica dovette scrivere una pseudo spiegazione che fosse molto clericale, molto buona, altrimenti c’era il rischio di non poter accedere alla serata e così facemmo. Nello stesso Festival, nella stessa serata, c’era Vasco Rossi che cantava “Vado al massimo” che non parlava delle motorette.
Hai anche poi scritto e prodotto tra il 1986 e il 1988, insieme al compianto Gaio Chiocchio, diversi pezzi sanremesi per una giovane Paola Turci: “L’uomo di ieri” nel 1986 ma anche “Primo Tango”, premio della critica a Sanremo 1987, e “Sarò bellissima” del 1988, scritta da Chiocchio.
Paola Turci ancora oggi è una delle più belle voci italiani, uno dei più bei timbri, con delle canzoni che non le danno il giusto merito; dal punto di vista vocale è una artista straordinaria. Non voglio dire che le canzoni che scrivevo io erano più belle, anzi forse erano anche meno produttive, ma avevamo cercato di entrare in quella che era la vera anima, anche timbrica, di Paola. E quindi mi auguro di sentirla presto in una canzone che mi possa emozionare di nuovo.
Non tutti sanno che hai scritto anche una delle ultimissime canzoni di Bindi.
In realtà, ne avevamo scritte due. Umberto era un personaggio fuori dall’ordinario. E’ stato un uomo fragilissimo e tostissimo al tempo stesso. Uno che, in anni assolutamente retrogradi per la televisione, confessò la propria omosessualità: si può immaginare come sia stato trattato. E’ stato ai margini della TV per decenni, ha dovuto lottare contro l’ignoranza e contro cose che nulla hanno a che fare con la capacità di capire il mondo e la vita. Un grande artista le cui melodie sono immortali.
C’è differenza tra il comporre per sé e per gli altri?
E’ una differenza inevitabile. Quando scrivi per un altro sei più spudorato in quanto per te stesso ti crei più problemi, più ansie. Quando scrivi per un altro, tutto quello che vorresti sperimentare per te lo regali a qualcun altro: è sicuramente un approccio diverso.
Sei stato anche uno dei primi a valorizzare il talento di Mariella Nava.
Ho conosciuto Mariella con il mio disco “Sul nido del cuculo” [1988] perché avevamo gli stessi produttori e lei cantò all’interno di alcuni brani di questo disco. Dato che era una autrice che stava cercando la sua strada, e la stava cercando con grande intelligenza, mi fu fatta notare e decidemmo di portarla con me nella tournée di quell’album. Lei non solo cantò in alcuni brani del disco ma anche in un piccolo spazio che le ritagliammo per far conoscere le sue canzoni, e lo fece in maniera encomiabile.
Nel 2014 pubblichi l’album “Musica per un incendio”. Quale incendio canti?
L’incendio è quello dell’emozione: anche in quel disco ho fatto cose che nei dischi non si fanno. Lilli Greco mi disse di mettere una cosa demenziale, “Torna A Casa Lassie”. Se il disco è la carta d’identità dell’artista, non puoi contraffarla, la dai così come sei, nel bene e nel male. Nel disco ci sono atteggiamenti sentimentali molto forti, così come ci sono cose teatrali nel senso più ludico del termine. Per “Annie Lamour” ho pensato a una “Bocca di rosa” del 2000; non che ne avesse bisogno, però mi sono divertito a riproporla e l’ho fatta uscire da un paese e posta in una grande città.
Che cosa c’è da aspettarsi nel tuo prossimo futuro?
Ho dei brani pronti però devo capire se è il caso di farli uscire in questo periodo o no. Sono sempre molto sollecitato dalle cose attorno a me, ma siamo sempre sospesi in quanto, oltre all’oggi, non si può pianificare neanche domani, e questo è un bel pasticcio. L’augurio è di tornare tutti quanti dal vivo ma per essere sinceramente convinti che nessuno ce la fa da solo. La vita non va vissuta come egocentrici; è la collettività che fai cambiamenti e non soltanto l’uno.
Facciamo nostro il tuo augurio. A presto, Mario.
Un caro saluto ai lettori di Valle d’Itria News.
*Vincenzo Salamina e Domenico Carriero sono appassionati di musica e conducono un programma su Youtube chiamato Music Challenge (che potete seguire qui). Con ValleditriaNews condividono amichevolmente le interviste a musicisti e artisti noti o meno della scena musicale italiana.
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