Banco, in “Transiberiana” il viaggio della nostra vita

*di Vincenzo Salamina e Domenico Carriero

Il loro ultimo album di inediti vede la formazione del Banco di Mutuo Soccorso rinnovata dopo la scomparsa di Francesco Di Giacomo, storico frontman del gruppo. Ne parliamo con Vittorio Nocenzi, fondatore del Banco, che da poco ha festeggiato i settant’anni, e con il cantante Tony D’Alessio: insieme tracciano un percorso ragionato sulla storia del Banco e sulla sua diversità.

Nel 2019 è uscito il vostro ultimo album di inediti, “Transiberiana”. Perché questo titolo?

Vittorio: La Transiberiana è la linea ferroviaria più lunga del pianeta, da San Pietroburgo fino al Mar del Giappone. Il viaggio attraverso la Siberia ha fatto parte della fantasia giovanile della mia generazione, era una suggestione molto forte quasi irresistibile che ben si prestava ad essere una metafora perfetta del viaggio più lungo che uno possa fare, ossia la nostra vita. Quel titolo ci dava la possibilità di metter su una narrazione ampia fatta anche di autobiografia e di suggestioni: un modo opportuno per riprendere la produzione di un album inedito dopo tanto tempo. Il Banco ha ripreso a produrre musica e stiamo preparando il nuovo disco; e alcuni ci dicono che siamo incoscienti o coraggiosi ad uscire con prodotti di questo tipo, di questi tempi. Penso però che siano molte le persone che hanno voglia e bisogno di sentire un altro tipo di musica, quella musica che racconta emozioni, memorie, scontri e incontri, esperienze, ricerca. Mi sembra che oggi l’insofferenza di molti sia verso la banalità, verso il deja-vu, verso questa globalizzazione fatta in maniera grigia con poche diversità. Consideravo infatti la globalizzazione più come una opportunità di scambio tra cose diverse: mantenere le diversità e poi, attraverso la connessione digitale e satellitare, scambiarle velocemente, e non quindi omologazione grigia e mediocre fatta di luoghi comuni. Siamo consapevoli che siamo molto diversi con la nostra musica ma siamo anche consapevoli che molte persone vogliono non sentirsi sole in questo bisogno di diversità, che diventa curiosità, stimolo e confronto.

Questo lunghissimo viaggio si snoda tra le note molto particolari di questo disco. La partenza avviene sulle note di “Stelle sulla terra”…

Tony: …che tra l’altro ho cantato anche in inglese perché inizialmente il disco doveva essere pubblicato in due lingue diverse ma l’italiano ha vinto, per fortuna aggiungo, perché amo la nostra lingua. L’italiano consente vocalità che altre lingue non consentono: può essere appoggiato e sospirato e al servizio delle immagini. E’ una ricchezza. Io sono tenore drammatico naturale e devo rinunciare a molte delle mie timbriche per cantare in inglese e appiattirle verso quelle nasali, il che non mi rappresenta. 

Vittorio: La colpa è stata mia. Prima l’ho fatto faticare a registrare tutto in inglese. Poi alle quattro di notte mi sono svegliato e mi son chiesto “perché il Banco deve cantare in inglese se ci hanno sempre apprezzato con dischi in italiano?”. Il giorno dopo ho richiamato Tony e ho detto “ricanta tutto da capo, in italiano”. Il giorno dopo “Prog UK”, periodico internazionale di riferimento per il rock progressive mondiale, facendo la recensione di “Transiberiana”, ha scritto: “Italian is better”. Soltanto allora mi sono tranquillizzato perché avevo una grande responsabilità di aver fatto questa scelta. Questi recensori hanno detto ai loro lettori inglesi: “non preoccupatevi se non capite quello che cantano, questo è un album che trascende il linguaggio; è bello lo stesso anche se non capite le parole”, esattamente quello che pensavamo noi con i dischi delle band inglesi anche se non eravamo madrelingua. Tony, ancora oggi quando sento cantare quel brano con la tua interpretazione, nella mia testa ti faccio i miei complimenti sinceri, perché ci vuol poco a trasbordare. Tu utilizzi le timbriche della voce con grande sensibilità. Quando c’è una melodia come quella che potrebbe essere scambiata per romanza, in certi passaggi, ci vuole poco per farla diventare eccessivamente enfatica e invece bisogna mantenere la leggerezza poetica che dà poi, a una melodia cantata, tutt’altra forza di suggestione. 

Dopo la partenza, come nel viaggio della vita, accadono gli imprevisti, come vengono cantati in “L’imprevisto”.

Tony: L’imprevisto è ormai un inno per me, e un po’ ha segnato le vite di chi ha legato la vita alla musica. Succedono cose che non avresti mai sognato, come cantare nel Banco al quale mi sono approcciato come fan. Nel 1996 mi affacciai a Francesco [Di Giacomo] per complimentarmi per il lavoro magnifico che il Banco ha sempre fatto, non escludendo nessun periodo, neanche quello pop. Volevo chiedere a Francesco del suo amico Demetrio Stratos, perché lo stavo studiando e volevo approfondire alcune cose legate alla meditazione. Francesco forse si divertì a parlare con me, mentre faceva il soundcheck, parlò mezzora, poi arrivò Filippo [Marcheggiani] e lì nacque tutto. L’amore per il Banco me lo porto da bambino: immaginate di diventare il cantante del vostro gruppo preferito. E’ una cosa che non ha prezzo, non ha valore, non si può quantificare. Io darei la vita per questa cosa e penso che questo arrivi ai miei fratelli e alla famiglia Banco…

Vittorio: …e al pubblico che ti ha adottato immediatamente. Eravamo preoccupati perché una figura carismatica come quella di Di Giacomo non si sostituisce mai: gli si può dare una alternativa, ma sostituirlo mai. E sappiamo come i fan siano conservatori, vorrebbero immortalarti a 20 anni. Ho scelto la barba bianca per discontinuità. Ma per i fan dovrei essere sempre un trentenne aitante, con capelli neri lunghissimi. E vorrebbero imbalsamarti immobile. L’artista in genere vuole sperimentarsi, sfidarsi, cambiarsi, andare avanti, ricercare la curiosità della conoscenza, della diversità. Ed ero preoccupato per l’impatto del pubblico con un altro frontman. Tony è stato coraggiosissimo, talentuoso e immediato: è stato accolto dal pubblico con un affetto che ha sorpreso tutti. La gente ha capito la sua dimensione umana. Questa splendida umiltà è pari soltanto al suo talento. 

C’è un momento nel disco in cui i passeggeri scendono dal treno e c’è l’assalto dei lupi. E’ un momento di un terrore, espresso benissimo dalla musica. C’è Tony che dice “scappa, scappa” in un modo così inquietante da mettere l’ansia addosso.  Come si fa a tradurre un sentimento, uno stato d’anima in musica?

Vittorio: Non c’è certo un metodo brevettato, non c’è copyright; ci sei tu e le idee che vengono in testa che ispirano una musica piuttosto che un’altra. Poi c’è il lavoro di ricerca espressiva che si fa per ogni brano, dalla composizione alla scelta dell’orchestrazione, degli arrangiamenti, la scelta della chiave interpretativa della voce, e prima ancora la scelta del tipo di narrazione che si vuole effettuare. Sono tutte queste scatole cinesi, una dentro l’altra, che ti portano a realizzare la suggestione che avevi intuito. Il racconto che avevo pensato di scrivere, assieme a Paolo Lolli, è la vera narrazione: un treno che parte dal Nord della Russia e si avvia verso la Siberia e poi verso il mare giapponese dell’estremo Oriente. Nel fare questo lungo viaggio c’è una partenza, magica come tutte le partenze, vivace nelle nostre aspettative, sempre entusiasmante, a meno che non sia un viaggio per scappare, come i migranti che scappano della guerra. La partenza è il sabato del villaggio di Leopardi, il giorno prima della festa: l’attesa della festa è la festa più grande. Partito il treno, il primo spettacolo che colpisce i viaggiatori è stato vedere i cavalli allo stato brado, sulle steppe russe della Siberia, sfidando il cavallo d’acciaio, che è il treno. I passeggeri, che sono nel treno, al sicuro, al caldo, vedono animali magnifici che corrono, e lo stupore li ha colti. Non potevano mancare gli imprevisti, come il ghiaccio che ha bloccato le rotaie, che non danno più sicurezza al treno. Bisogna allora fermarsi e aspettare che i binari scongelino. In questa attesa cresce l’ansia, l’angoscia dei viaggiatori. Abbiamo provato a immaginare quale fosse il loro stato d’animo. Vedono delle luci vicino al treno e decidono di andare a chiedere soccorso perché il freddo aumentava. Quando scendono dal treno si trovano in una dimensione di nebbia, di gelo, di neve e sicuramente è stato qualcosa di terribile che ha inquietato tutti e in quel momento c’è stato l’assalto dei lupi, nel momento in cui sei più debole. Non quando sei più forte; i lupi infatti sono vigliacchi, non sono animali coraggiosi, in quanto agiscono sempre in branco verso i più deboli. E questa era una perfetta metafora di ciò che accade spesso nella vita. La nebbia lattea, di questa impalpabile assenza di dimensione, ricorda la discesa di Enea agli inferi, quando nell’Ade trova il padre Anchise: prova ad abbracciarlo ma non ci riesce perché abbraccia l’aria perché non c’è più la consistenza del corpo. Nella mia testa l’abbraccio era per Francesco e per Rodolfo [Maltese]; anche in questo c’è molta autobiografia. E’ un pezzo dolcissimo, con cadenze armoniche molto belle, e anche le parole scritte con Paolo Lolli mi piacciono molto. Non amo l’eccesso e credo che la poesia sia fatta sempre di delicatezza; ci può essere anche la poesia futurista con le immagini che squarciano, però ci vuole sempre l’equilibrio anche dopo il momento in cui spingi al massimo l’espressività. L’eccesso può essere lo spunto e non il contenuto. Non c’è un metodo brevettato per fare gli artisti. Se tu ci metti del vero in quello che fai come artista, risalterà sempre; penso che una tensione umorale sia indispensabile in qualunque attività artistica. Poi allora arriva l’emozione, la tua dimensione umana, il tuo rifiutarla o il tuo accoglierla, metti in moto poi una serie di giochi emotivi che faranno risaltare il tuo lavoro, e questo credo sia successo con “Transiberiana” e poi con il prossimo lavoro.

C’è un passaggio fondamentale nel viaggio, quando i passeggeri si trovano davanti i ruderi del gulag, queste prigioni di dissidenti. Perché i passeggeri vedono il gulag?

Vittorio: Perché erano quelle luci che avevano scambiato come possibili soccorsi quando si ferma il treno; in realtà non era un villaggio ma i resti del gulag e non potevamo non parlare del gulag visto dalla Siberia, che è stata terra di deportazione, dai tempi degli zar fino al periodo del marxismo-leninismo. Privare della libertà per reati di pensiero è qualcosa di atroce in qualunque regime accada: la libertà di pensiero non la puoi togliere ad un essere vivente, è la cosa più atroce che tu possa fare. Non potevamo attraversare la Siberia senza almeno accennare a questo aspetto. La tensione etica, quando fai un lavoro artistico, è sempre bene che ci sia perché allora tu crei delle suggestioni autentiche, delle emozioni vere, condivisibili, che costruiscono riflessioni, che danno slancio al pensiero altrui, e al tuo che proponi questa dinamica. 

Sia nel primo che nell’ultimo brano del Banco c’è un salvadanaio in copertina. “Transiberiana” è una eredità o continuazione del primo album?

Tony: E’ la naturale metamorfosi di quello che era il magnifico Banco dell’inizio, una metamorfosi spontanea, che non abbiamo deciso noi come essere umani, ma semplicemente l’amore per qualcosa che era bello portare avanti. Ci siamo trovati con un piede nel passato e uno nel futuro e l’anello di congiunzione è Vittorio, e ora siamo noi a dare la nostra energia per riempire il vuoto.

Vittorio: Distano cinquant’anni tra i due album, ed è cambiato tanto e tutto attorno alla musica, e la musica raccontava i propri tempi. Transiberiana racconta il terzo millennio e attorno ci sono valori di riferimento diversi ed esperienze diverse; restare se stessi cambiando, sembra un nonsenso ma in realtà è successo questo e ciò ci ha riempito di gioia. Volevamo vincere la scommessa di essere immediatamente riconoscibili anche con un suono diverso, e l’abbiamo vinta. Il segreto è stata la fortuna che mi ha accompagnato nel fare le selezioni per il nuovo frontman: non cercavo i fenomeni o i virtuosi, né la voce più potente del mondo. Cercavo delle persone vere. Mettendo al primo posto questo, è accaduto il miracolo di ciò che è avvenuto dopo. Per suonare certa musica ti devi commuovere con gli altri della band, devi sentire una comunione profonda, senza di questa la band non esiste. Non siamo sei musicisti che suonano in contemporanea ognuno il proprio concerto, ma dobbiamo essere un’unica persona che suona sei volte lo stesso concerto in contemporanea. Per fare questo ci vogliono degli ideali comuni, una sensibilità in comune, dei valori di riferimento che ti fanno sentire vicino a chi sta condividendo il palco con te, altrimenti la magia del concerto, che consiste nel lanciare una freccia verso il pubblico e far condividere con te la stessa emozione, non funziona. 

Il Banco è stato caratterizzato dalla personalità e voce di Francesco Di Giacomo. Chi era Francesco di Giacomo?

Vittorio: Anzitutto un poeta dotato di una grande voce, una persona che faceva della propria creatività il percorso principale della propria vita e questo mi ha sempre stimolato molto a scrivere la musica. Non posso non nominare il mio terzo figlio Michelangelo, che è il coautore di tutta la musica di “Transiberiana”, ed è stato un dono inaspettato in quegli anni delle macerie, dopo la scomparsa di Francesco. In quegli anni ho scoperto che ciò che scriveva Michelangelo era una bella musica, tanto da sembrare scritta in prima persona pochi minuti prima. Mi è quindi venuto spontaneo scrivere a quattro mani con lui “Transiberiana”: ciò mi ha restituito un grande entusiasmo, perché la tenerezza di condividere con tuo figlio il momento importante di scrivere la musica è qualcosa di prezioso. Forse uno dei segreti di “Transiberiana” è quello di essere sempre un Vittorio Nocenzi a scrivere la musica, e ti identifichi in uno stile di scrittura e testi e poi senti la diversità, in questa attualità che viene dal giovane che avanza, dal tempo contemporaneo: un gioco delle parti molto speciale. Questa è stata la cosa più difficile per me di cui sono più orgoglioso. Anche in questo caso la qualità umana dei ragazzi della nuova formazione del Banco è stata importante per accogliere questo gioco delle parti all’interno della band, è stata una esperienza umana molto ricca e molto profonda, come è quella che stiamo vivendo in questo periodo per preparare il nuovo lavoro. 

Come inizia la storia del Banco?

Vittorio: Presto uscirà un libro: Vittorio Nocenzi racconta la storia del Banco, il primo libro ufficiale, ove racconto bene le nostre origini. La storia inizia perché a sedici anni suonavo con Gabriella Ferri: scrissi sette canzoni per lei, mentre i testi di Gabriella li scriveva suo padre Vittorio Ferri. Lavorando con lui a questi brani, gli feci sentire anche altra musica e allora lui mi propose di farli sentire all’RCA, dove Gabriella registrava i suoi dischi. Non mi sembrava vero che a sedici anni ti dicevano di andare a fare un provino all’RCA, casa discografica che aveva sotto contratto i più famosi cantanti italiani, da Morandi alla Pavone, a Modugno, ai Ricchi e Poveri. Feci sentire ai funzionari RCA i miei brani, ero emozionatissimo; avevo già scritto “R.I.P.” e “Metamorfosi” e rimasero incuriositi da questo materiale e mi domandarono se avessi una band per registrare i provini di questi brani. A sedici anni avresti detto qualsiasi cosa, e risposi affermativamente anche se non avevo nessun gruppo. Parlai con mio fratello Gianni che aveva quattordici anni e suonava anche lui con una band a Velletri; mi venne in mente di fare una formazione con due tastiere, chiamai Gianni che chiamò il gruppo di Velletri: i fratelli Falco, Fabrizio al basso e Claudio alla chitarra, e il batterista Franco Pontecorvi. Facemmo una settimana di prove, dieci, quindici ore al giorno, per andare dopo una settimana a fare il provino dei brani all’RCA, che piacque molto. Si misero in testa di produrci facendoci registrare il primo disco. Il nome Banco del Mutuo Soccorso venne in mente al direttore generale, Melis. Registrammo i brani, alla fine degli anni 60; io non conoscevo niente del mondo progressive, ero cresciuto con i Beatles, avevo sentito il disco dei Vanilla Fudge. I venti km che separano i Castelli da Roma erano in realtà venti anni luce: il paese, rispetto alla città, in quegli anni era in ritardo pazzesco. Non c’erano negozi di dischi che vendevano tutti i long playing delle nuove band inglesi o americane, la radio non si sentiva. Quando con la Ricordi registrammo “il salvadanaio” [primo album del Banco], i grandi critici musicali ci approcciarono come si faceva con qualunque disco di qualsiasi band italiana: “a chi assomigliano?”. Non c’era l’analisi della musica, della melodia, della struttura: la prima cosa da scoprire era chi ricordava. Era una ignoranza musicale abissale. Competenza e umiltà sono fondamentali per fare le cose fatte bene. Facemmo questo provino, ci fecero il contratto, ci trovarono il nome, ci stamparono i manifesti e le cartoline per i fan. Dopo aver registrato l’intero album scoprirono che non era commerciale e quindi non lo fecero mai uscire, se non venti anni dopo, con l’etichetta sperimentale Raro, pubblicando il disco con la prima formazione del Banco dove cantavo io, c’erano i due fratelli Nocenzi alla tastiera e i due fratelli Falco di Ariccia a chitarra e basso e il batterista Pontecorvo di Velletri. All’RCA avevano un grande vivaio di artisti ma ogni artista emergente ha solo se stesso come vivaio: lo capii in fretta e fui fortunato, chiesi la liberatoria all’RCA. Non avevo alternativa ma capivo che dovevo scappare da lì; andai a Milano dove incontrai Sandro Colombini, uno dei produttori più importanti della Ricordi. Registrammo per quell’etichetta “il salvadanaio” e fu subito primo in classifica. 

Negli anni ‘80 il suono si fa più commerciale. Come avvenne questo passaggio storico per il Banco?

Vittorio: Fu il frutto di un dibattito molto feroce tra noi all’interno. Il modo in cui si ascoltava la musica negli anni ‘70 non era come negli anni ‘80, in quanto era cambiata la lingua della comunicazione. Se avessi proseguito a fare la musica del “Giardino del mago”, sicuramente quel disco sarebbe stato destinato a non essere compreso. Era come se avessi voluto far commuovere la gente leggendo poesie in russo ad un auditorio che parla francese. Se registro un disco vorrei che le persone lo ascoltino. Capimmo che c’era un’urgenza nuova e diversa nella comunicazione: la gente privilegiava delle comunicazioni più brevi, canzoni da tre minuti. Arrivammo quindi a un bivio. O smettevamo di registrare dischi perché non aveva più senso o ci adeguavamo al codice di comunicazione, con composizioni più brevi. Per me è stato molto più difficile scrivere una canzone da tre minuti che una mini suite di diciannove minuti. Venendo dagli studi classici era più facile scrivere un brano da diciannove minuti come “Il giardino del mago” rispetto a “Paolo Pà” dove a un certo momento doveva entrare il ritornello altrimenti non sarebbe passato in radio. Sono orgoglioso di aver fatto quella scelta perché abbiamo aggiunto al carisma degli anni ’70, del rock progressive, canzoni che ci hanno dato una caratterizzazione nazional popolare che nel tempo ci ha consentito di vivere col nostro lavoro, coi concerti. C’era solo una scommessa da vincere, ossia mantenere la qualità dei contenuti, cambiando la forma. La qualità dei contenuti è rimasta, la scrittura era più sintetica ma non di minore qualità. MI ricordo che mi misi a studiare i grandi della produzione statunitense, come Quincy Jones, maestri con la M maiuscola negli arrangiamenti e basi ritmiche. Dischi come “Thriller” hanno insegnato a fare musica negli anni ‘80 a centinaia di migliaia di musicisti.  Parlare di omosessualità negli anni 80 con “Paolo Pà” non fu cosa da poco, fu una scommessa difficile da vincere. Parlare di una omosessualità negata in una periferia metropolitana era una cosa che turbava, che metteva difficoltà a chi trasmetteva musica nelle radio. “Moby Dick” la amo ed era dedicata all’utopia, era il significato della balena bianca, era quell’ideale che ti fa progredire e ti fa fare un percorso di vita e conoscenza. Il periodo degli anni ‘80 fu per noi un periodo di bei dischi, come “Buone notizie”. Con “Grande Joe” andammo a Sanremo nel 1985, ma quello fu un altro calvario, una sofferenza totale. Anche lì ragionammo: “ma se andando una settimana a Sanremo faccio tutta la promozione e non devo fare due mesi di radio e televisione, allora andiamo!” Fu così che scegliemmo di andare al Festival con la visibilità massima. “Grande Joe” era una bella canzone con un tema nobile, quello di una grande amicizia fraterna tra due persone, l’inno dell’importanza dell’amicizia vera che unisce Astolfo a Orlando e ispirerà uno dei brani del nuovo lavoro del Banco. Invece “E via” lo pensai per il mercato europeo: all’estero avevamo fatto solo una tournée, e quindi volevo fare delle registrazioni che andassero bene per quello che era il mercato di allora all’estero, ma fu abortito dalla CBS. Non fu un progetto serio per cui si decise di far uscire quel disco per l’Italia, ma non andava bene per l’Italia. E fu il motivo per il quale rompemmo di nuovo il contratto discografico. E iniziò la lunga assenza fino a “Transiberiana”, decidendo di prediligere di più l’attività concertistica che quella discografica. 

Vi ringraziamo tanto per questa lunga chiacchierata e vi aspettiamo per le prossime novità. E lunga vita al Banco!

Grazie a voi e un saluto ai lettori di Valle d’Itria News.

*Vincenzo Salamina e Domenico Carriero sono appassionati di musica e conducono un programma su Youtube chiamato Music Challenge (che potete seguire qui). Con ValleditriaNews condividono amichevolmente le interviste a musicisti e artisti noti o meno della scena musicale italiana.

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