*di Vincenzo Salamina e Domenico Carriero
Eugenio Bennato ha chiuso a fine aprile il tour “Viva chi non conta niente”, dedicato agli ultimi che da più di 50 anni, costantemente e coerentemente, sono protagonisti della sua musica.
Eugenio, si è chiuso il tour “Viva chi non conta niente” che ti ha portato a girare piazze e teatri in Italia e in Europa. Che esperienza è stata?
Molto particolare perché era un tour di ritorno col contatto col pubblico che ci mancava. Ho potuto constatare quanto importante sia il live. Io scrivo melodia, musica, testi e il contatto con chi mi sta di fronte è fondamentale. La chiusura è avvenuta al Teatro Trianon di Napoli e due giorni prima eravamo in Germania, a Colonia: un pubblico internazionale dal quale c’è stato un riscontro che è una vera soddisfazione in un percorso così lungo, costante e coerente. Ricordo con emozione che a Colonia, mentre eseguivamo il terzo pezzo della scaletta, alcune ragazze si sono alzate dalle loro sedie iniziando a muovere passi di taranta in maniera perfetta. Mi sono intimamente emozionato perché era successo quello che ho sognato per anni. Un riscontro simile accadde la prima volta a San Vito dei Normanni nel 1998, con due ragazze che uscirono dalla folla e si avvicinarono al palco, e pensai che erano maturi i tempi per dare impulso al ritmo di possessione e liberazione. Vedere la stessa scena in Germania venti anni dopo significa che qualcosa ha funzionato e lasciato il segno da allora.
Da dove è nata l’idea del coinvolgimento sul palco di musiciste ucraine e russe sul palco del Trianon lo scorso 30 Aprile, durante l’ultima data del tour?
Io ho ritrovato al Trianon un personaggio molto brillante, Marisa Laurito, che si è dedicata con grande attenzione a dare una spinta a questo teatro che si trova sulla frontiera tra le due Napoli, tra Forcella e Rettifilo. Marisa mi aveva proposto di coinvolgere ragazze dell’est. Io al conservatorio ho conosciuto queste straordinarie artiste. Al di là delle motivazioni simboliche, c’è un fatto reale, ossia che loro suonano benissimo. Alcuni hanno trovato da ridire per questa loro partecipazione ma per fortuna c’è la musica che unisce perché la musica non distingue tra musiciste ucraine e russe, ma distingue tra chi suona bene e chi male, tra chi ha talento e chi no e loro sono ragazze di grande talento. In quella serata c’è stata una esecuzione straordinaria di tre brani: il primo un canto popolare ucraino, il secondo una melodia che appartiene al mio repertorio, “Canzone di Iuzzella”, e poi ho approfittato per cantare con loro “Welcome to Napoli”, uno degli ultimi brani che ho scritto.
Chi sono gli ultimi che hai voluto portare nel nome del tour?
I primi emarginati della mia biografia sono i maestri della tradizione popolare del Sud, che negli anni ‘70 erano inesistenti, più che ultimi. Seguendo il filo di quella che pensavo fosse una bellezza musicale, sono andato per campagne e villaggi per cercare questi personaggi non per smania intellettuale ma proprio perché la musica che facevano, e che ho fatto in tempo a registrare e diffondere, era straordinaria. Proseguendo, pensando alla storia del Sud, mi sono interessato all’insorgenza dei briganti contro l’esercito che era sceso al Sud e anche quelli erano emarginati e dimenticati, assolutamente taciuti per 150 anni. Ho istintivamente seguito il percorso di porre in luce dei volti perché di questi briganti abbiamo anche le fotografie, scattate dall’esercito piemontese. Era giusto che il brigante Ninco Nanco continuasse a non essere un illustre sconosciuto ma venisse conosciuto dai giovani. Arriviamo poi agli emarginati del nostro tempo, che frequento e conosco, che possono apportare alla nostra cultura occidentale una grande energia nuova: sono trattati da extracomunitari mal sopportati e in qualche modo sempre pronti ad essere rigettati in mare.
Nel 2020 pubblichi il tuo ultimo album “Qualcuno sulla terra”, progetto sull’amore universale. Quale è il messaggio di questo disco e come nasce la collaborazione con “Le Voci del Sud”, sestetto vocale che partecipa al disco?
Il messaggio è contenuto nel titolo: io cerco sempre di fare sintesi. Leggevo in questi giorni di una deriva della storia contemporanea in cui vediamo cose che pensavamo di aver lasciato indietro nei decenni: c’è la seconda strofa di “Qualcuno sulla terra” che dice che “per esserci la guerra deve esserci qualcuno, qualcuno sulla terra, che la guerra vuole fare”. Occorre riportare quindi la storia alla umanità che esiste e che deve contrapporsi e che non si può tirare indietro additando le malefatte ai potenti e a chi ha il potere. E’ una esortazione a che ognuno si renda conto che il destino della storia dipende da ognuno di noi, magari in misura diversa. Gli emarginati contano di meno, però c’è sempre la possibilità di contare qualcosa e sovvertire la logica. “Le Voci del Sud” nascono per uno spontaneo incontro come tutte le cose del mio percorso: io ho incontrato questi ragazzi che erano solisti e in qualche modo ho prospettato qualcosa da fare assieme con queste voci che vengono dalla musica popolare. E’ una generazione che viene dal Taranta Power, di quella che è stata una esplosione del riconoscere una musicalità del Sud che ci ha resi protagonisti della World Music laddove era assente fino a tutto il ‘900. Con gli anni Duemila siamo invece stati presenti nella world music e si è creata una accelerazione di artisti che hanno dimestichezza con gli strumenti e lo stile popolare: li ho messi insieme e chiamati “Le Voci del Sud” facendo con loro dei percorsi molto entusiasmanti. Ho approfittato della loro capacità per mettere su questi sette corali sulla creazione del mondo.
Nel 2011 pubblichi un altro lavoro, “Questione meridionale”, per il centocinquantesimo anniversario dall’Unità d’Italia, un concept che parla di emigrazione, brigantaggio. Cosa è necessario fare per risolvere l’annosa “questione meridionale”?
Difficile domanda alla quale non voglio rispondere in maniera superficiale. Il sociologo Franco Cassano che ha battezzato il pensiero meridiano, in cui teorizza e afferma che è ora che il Sud si scrolli di dosso un complesso di inferiorità indotto dal nord ovest egemone e inizi a manifestare idee propositive anche per i nord del mondo. Lui parla della lentezza, del rapporto personale, del dono, di tanti elementi che sono stati scartati dalla società dei consumi. Direi che il Sud più che riscattarsi deve dare esempi e modelli all’intero mondo, primo tra tutti l’attenzione a evitare il pericolo di una massificazione, di una globalizzazione che elimini l’identità. Quindi viva i dialetti tutti, che siano del Nord o del Sud, viva chi si oppone alla globalizzazione e continua con l’artigianato a manifestare la propria identità.
Nel 2008 dedichi al Meridione il disco “Grande Sud”, uscito dopo la partecipazione a Sanremo. In che maniera si innesta il Festival nel tuo percorso musicale?
Dovetti cedere alle gentilissime richieste di Pippo Baudo che mi pregò. Io all’inizio con un atteggiamento un po’ snob dissi che ero scettico. Poi vidi che era una grande opportunità quella di portare nei programmi con importanti audience televisive sia strumenti come la chitarra battente e il tamburello che lingue mai ascoltate, come l’arabo o lo swahili, elementi che già portavo con grandi riscontri nelle piazze di tutta Italia. Pensai di portare quelle stesse novità ai genitori dei ragazzi che ci venivano a sentire dal vivo, pubblico che non sarebbe mai venuto nelle piazze affollate e rumorose. Non mi sono pentito ma ho pensato che cedere alle richieste del gentiluomo Baudo sia stata cosa positiva.
Nel 2002 dedichi al nostro mare il disco “Che il Mediterraneo sia”, una esortazione affinché quel mare sia culla di unione tra popoli.
La canzone omonima la scrissi agli inizi degli anni Duemila: era un bell’augurio che ha avuto anche un grande seguito perché era il periodo in cui mi trovavo nella porta accanto ragazzi del Marocco e della Tunisia. Con le stesse intuizioni con cui scoprivo i cantori delle campagne, scoprii che l’estetista che veniva a casa era una grande artista, e scoprii che le sonorità che ci proponeva il nostro Sud ci riportavano con la fantasia e con la realtà musicale e sonora e timbrica a un Mediterraneo di scambio. Ascoltare il Blues del Gargano significa andare coralmente a vedere ciò che accade nell’entroterra dell’Egitto, a quei ritmi che hanno ognuno una specificità e che hanno anche una comunanza di atteggiamento comune a tutto il Sud del mondo. E quindi quel brano era un augurio, che il Mediterraneo ci fosse e c’è stato.
Grazie Eugenio e speriamo di vederci questa estate di nuovo dal vivo.
Grazie a voi e un saluto ai lettori di Valle d’Itria News.
*Vincenzo Salamina e Domenico Carriero sono appassionati di musica e portano avanti un format su Youtube (che potete seguire qui), Facebook (raggiungibile da qui) ed Instagram (music.challenge321) chiamato Music Challenge, nel quale trasmettono in diretta le loro interviste. Con ValleditriaNews condividono amichevolmente le interviste a musicisti e artisti noti o meno della scena musicale italiana.
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