“Era luglio del 1712” ricorda Don Franco Semeraro “quando la reliquia di San Martino giunse in città e da allora la festa patronale si è spostata a luglio. Inizia, quindi, un lungo percorso culturale e spirituale che ci porterà al prossimo 8 luglio quando celebreremo la festa estiva di San Martino”.
Il parroco della Basilica di San Martino ricorda con orgoglio una festa che la città onora da ben 300 anni, un anniversario importante che si celebra quest’anno, quasi in coincidenza con i 700 anni dalla nascita di Martina Franca.
Per festeggiare questa ricorrenza, Don Franco Semeraro ha organizzato una serie di incontri pubblici all’interno della Basilica. Dopo la benedizione dell’Arcivescovo di Taranto, Mons. Benigno Papa, un altro “Don”, il 14 novembre, ha intrattenuto i tanti presenti per più di un’ora nella Basilica di San Martino.
Don Luigi Ciotti è, per chi non lo conoscesse, un presbitero italiano impegnato da 45 anni nella lotta contro la mafia.
Il suo lungo intervento, a tratti commovente per il sentito ricordo delle vittime di mafia, non è stato mai interrotto da un applauso.
Eppure siamo abituati a far esplodere il ricordo, con un battito di mani quasi meccanico, ogni qual volta che la memoria viene sollecitata da un nome e un cognome.
Lunghi applausi ci sono stati, concentrati però alla fine del suo intervento.
Legalità, giustizia, bene comune, responsabilità civile. Detto volgarmente, Don Ciotti è un prete che parla da prete, un uomo che pone al centro del suo pensiero l’uomo.
E fin qui nulla di nuovo. Le secolari mura di una Chiesa sono abituate alle omelie, alle preghiere, agli anatemi e ai retorici discorsi, così come gli uomini, ormai automatizzati e standardizzati in riti quotidiani. Però in questo caso si sente nell’aria la novità. Forse la presenza di uomini in divisa aiuta a sentirne la straordinarietà.
Straordinario è anche sentirgli dire che “il Cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare principi generali, ma deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici ed umani della libertà e della giustizia.”.
Attacca chi si nasconde dietro alla bandiera della legalità, chi, anche in assenza di vento, dice di esser riuscito a farla sventolare soffiandoci sopra.
Martina Franca conosce bene questi finti sbandieratori.
Don Ciotti dice che “la legalità è un esigenza fondamentale della vita sociale per promuovere il pieno sviluppo della persona umana” e che “la costituzione del bene significa regole condivise a tutela del bene comune”.
Siamo abituati a confondere giustizia con legalità, e Luigi Ciotti ce lo ricorda sottolineando la differenza che separa i due concetti, ponendo la legalità a mero strumento utile per soddisfare il reale bisogno di giustizia.
Giustizia quindi come fine ultimo dell’esistenza umana, la realizzazione definitiva dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, delle opportunità.
Non basta rispettare le leggi per avere uguaglianza, la legalità non è un valore a sé.
“Se tutte le persone non sono riconosciute nei loro diritti e nella loro dignità la legalità può diventare uno strumento di discriminazione e di potere”, per questo pone l’accento sull’educazione, strumento fondamentale di speranza per un futuro quanto mai incerto e preoccupante. Purtroppo però quel sistema educativo è fortemente compromesso, un po’ come tutto il resto!
Don Pino Puglisi, il giudice Livatino, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro sono solo alcuni dei nomi archiviati nella nostra memoria come vittime di mafia.
Il loro ricordo commuove, soprattutto quando Luigi Ciotti racconta di come un figlio, un fratello, un marito o una madre sente il bisogno di sentir pronunciare il nome di chi si è sacrificato in nome della Democrazia e della giustizia.
Sostituire un sorriso e un abbraccio, riempire una stanza vuota, sentire il sacrificio come una sofferenza utile. Poter dire: non è morto invano! Il racconto di come, per alcuni, il ricordo non è solo semplice battito di mani, ma Vita!
Il giudice Livatino prima di essere ucciso scrisse sul suo diario: “alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma credibili”, ed è proprio questa la frase simbolo della serata.
Viene da chiedersi, verso la fine dell’incontro, quanto queste parole a volte gridate e a volte bisbigliate, possano servire alla comunità di Martina Franca. Quanto di quello detto rimarrà? La paura è che possa essere stato solo un brivido passeggero.
Crescendo il compromesso diventa abitudine, modo di fare, normalità, ci siamo così standardizzati che purtroppo distinguere un essere umano da un’automa non è più cosa semplice. Così diventa normale convivere con chi si permette di distruggere la Valle d’Itria, chi fa dell’abusivismo uno stile di vita, chi distrugge uno storico teatro per interessi personali.
Don Ciotti ora sarà in qualche altro angolo sperduto in Italia a raccontare le stesse cose e ad urlare la sua voglia di giustizia e di uguaglianza mentre qui torna la preoccupante serenità di sempre. Mentre su di lui si accendono altri riflettori, qui si spengono. Lo spettacolo è finito, si torna alla vita.
Le sue parole sono state un piccolo contributo, le sua azioni sono “piccoli semi” di speranza che possono crescere, ma la speranza è un fiore che non dà frutti.
Uno spolverino non può salvarci dall’onda di fango, servirebbe un’impresa di pulizie e come egli stesso ha detto alla fine del suo intervento: “il pacchetto di maggioranza lo mette Dio” ma noi non culliamoci del fatto che qualcuno lo farà al posto nostro. E se non lo fa nessuno!?
Emanuele Copertino
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