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Contro la crisi, la resilienza. Serge Latouche a Locorotondo.

[in alto il video di Fabrizio Semeraro]

Conclude citando l’amico Paolo Cacciari, Serge Latouche, in un auditorium comunale strapieno con persone in piedi ovunque: o decrescere o barbarìa (con l’accento sulla I). L’appuntamento è organizzato dalla libreria L’Approdo, in collaborazione con il comune di Locorotondo e il mensile Largo Bellavista. I temi della decrescita e dell’alternativa alla società fondata sul consumo hanno ormai esondato i limiti delle cerchie ristrette di pochi illuminati e sono diventati quasi di dominio comune. Non fosse altro per il momento di crisi sociale ed economica che stiamo attraversando, in cui i limiti di una società impostata sulla crescita infinita diventano sempre più evidenti. Basti pensare al rincaro dei prezzi della benzina o del rischio di rimanere senza gas.

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Serge Latouche viene dalla Bretagna, ma parla in italiano, si esprime attraverso concetti semplici, come semplice è la teoria che condivide con la platea attenta. “La decrescita è un progetto locale, perché relocalizzare è uno dei temi più importanti” dice, riferendosi sia all’economia della moneta, ovvero la possibilità di affiancare una moneta locale all’euro come hanno fatto in Aspromonte, oppure per quanto riguarda la politica, l’autonomia, intesa nel senso originario del termine, cioè darsi da soli delle regole (darsi da soli un nome).

Crescere solo per crescere è stupido, così come decrescere per decrescere” dice Latouche “come Mario Monti che parla di crescita ma non parla di cosa far crescere. La decrescita si pone come obiettivo quello di far crescere la qualità della vita, la gioia di vivere, la qualità dell’acqua, dell’aria…” E poi: “La decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative”. Cita esperienze significative di luoghi o comunità in cui i principi della decrescita, come il Chiapas e altre realtà dell’America Latina in cui la decrescita si chiama Buen Vivir.

Ma cos’è, in sostanza, la decrescita?

La decrescita è un nome dato ad una serie di riflessioni di diversi studiosi, in cui il limite dello sviluppo (inteso come industrializzazione e mercato) è preso seriamente in considerazione. Di più, secondo la tesi principale, dovremmo smettere di rapportarci con le risorse attraverso la mercificazione. L’aria, l’acqua, la terra, il lavoro non possono essere considerate merci perché nessuno li produce. Essi sono “bene comune”.

Quindi Latouche spiega, partendo dalla presentazione del suo libro “Abbondanza Frugale”, che il concetto di “sviluppo” è solo occidentale, meglio ancora, aggiungiamo noi, “industriale”, in cui come un ciclista che è condannato a pedalare per non cadere, la società fondata su industria e mercato è costretta a produrre sempre più per reggersi. Una società fondata su tre pilastri: pubblicità, credito, obsolescenza programmata. Ovvero, traduciamo, sulla creazione di bisogni che saranno soddisfatti attraverso l’acquisto (a rate, attraverso mutui, prestiti) di merce che deperisce in tempi rapidissimi.  Siamo quindi condannati a lavorare per produrre e quindi avere un reddito sufficiente per permetterci una merce che diventa vecchia velocemente. E in questa maniera stiamo consumando tutte le risorse a nostra disposizione, senza rendercene conto, in un circolo vizioso da cui non riusciamo ad uscire perché abbiamo l’immaginario colonizzato dai concetti diffusi dalla pubblicità e da una società fondata sullo spreco e l’iperproduzione.

Il momento che stiamo vivendo invece ci offre l’alternativa come possibilità concreta. La società fondata sulla crescita ha mostrato i suoi limiti con la crisi che l’occidente sta attraversando: i deboli e i meno ricchi sono costretti a pagare sempre più per permettere alla macchina della società di poter reggersi in piedi. Consumare meno e più attentamente è l’alternativa concreta, necessaria. Latouche fa degli esempi concreti: “Se tutti consumassimo come gli abitanti del Burkina Faso, il pianeta potrebbe sostenere 23 miliardi di persone, mentre se vivessimo tutti come gli australiani, la Terra non potrebbe sostenerne più di 500 milioni” E ancora “Noi occidentali possiamo consumare 3 pianeti di risorse perché gli africani ne consumano meno“.

Il professore bretone con un’estrema praticità, elenca i passaggi necessari per attuare una società fondata sulla felicità e sulla qualità della vita e non più sulla merce. Innanzitutto bisogna rompere con il sistema superando le dipendenze (economiche, politiche, culturali) da tutto ciò che è esterno (le multinazionali, per esempio), quindi resistere e sviluppare la resilienza, ovvero la capacità di un ecosistema di resistere all’aggressione esterna e quindi ripartire. Un esempio potrebbero essere le cosiddette transition town (link). Quindi ritornare a valorizzare le buone pratiche locali, restaurare l’agricoltura contadina, e questo potrebbe creare nuovi posti di lavoro, il piccolo artigianato, anche altamente tecnologizzato, che sappia riparare e riciclare. Quindi passare a ripensare la moneta, come strumento di scambio, magari affiancando all’Euro, monete locali, come hanno fatto in Aspromonte.
Dall’economia alla politica (anche se pare non ci siano differenze alcune): il governo deve essere affidato a comunità locali che sappiano autogovernarsi e che stabiliscano rapporti di rete con le comunità vicine, istituendo la cosiddetta “democrazia ecologica di prossimità”, che significa che decide chi abita in un posto decide cosa deve accadere.

Siamo davanti ad un bivio: possiamo scegliere se imboccare la strada della decrescita o quella della barbarie.

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Commenti

2 risposte a “Contro la crisi, la resilienza. Serge Latouche a Locorotondo.”

  1. Avatar pierino
    pierino

    ottimo intervento. dovrebbero ascoltarlo non solo i cittadini molto piu’ sensibili agli eventi futuri che i politici (pochissimi, anzi nessuno) in sala dove non immaginano un mondo diverso. una classe politica che guarda al passato e non al futuro non merita di guidare un popolo.

  2. Avatar pierino
    pierino

    ottimo intervento. dovrebbero ascoltarlo non solo i cittadini molto piu’ sensibili agli eventi futuri che i politici (pochissimi, anzi nessuno) in sala dove non immaginano un mondo diverso. una classe politica che guarda al passato e non al futuro non merita di guidare un popolo.

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