Suicidi per la crisi. Intervista all'antropologo Felice Di Lernia.

Foto: curacultura.wordpress.com

Il Primo Maggio è la festa del lavoro e dei lavoratori e per onorare tale festa, il modo migliore, secondo noi, è quello di tentare di indagare a fondo la realtà per cercare di capire i mutamenti in atto. Uno degli argomenti più scottanti sono i suicidi di imprenditori e lavoratori (qui i dati della Cgia di Mestre) che decidono di togliersi la vita sopraffatti dalla crisi. Non se ne parla molto in giro, ma i social network sono piene di storie che rimandano elenchi e nomi e date. La crisi sembra stia mietendo davvero le proprie vittime.

Ma siccome la “crisi” è un termine che ultimamente sta giustificando qualsiasi pratica, così come “l’Europa ce lo chiede” come ci ricorda Di Lernia alla fine dell’intervista, noi abbiamo provato ad andare oltre, o meglio, alla fonte, interrogando un antropologo, sul fenomeno dei suicidi. Il suo contributo è, per quanto scientificamente pregnante, poco sorprendente: la società è troppo veloce e quindi qualcuno non riesce a mantenere la pressione e decidere di scendere dalla giostra in movimento, ma quello che in realtà è illuminante, delle sue parole, è che la “cura” scelta per limitare i danni, sembra sia più pericolosa della malattia stessa.

In sintesi, dato che lasciamo alle sue parole il compito di rispondere, viviamo in una società che ci costringe ad accelerare sempre più, impedendoci relazioni significative con chi ci sta vicino. Senza relazione, la nostra rete, che in qualche maniera attutisce i colpi che arrivano dall’esterno, è quanto mai debole e sembra di essere soli contro l’infinito. Suicidarsi perchè non si riesce a portare il pane a casa è un gesto “paradossale” come dice Di Lernia, perchè con l’atto di togliersi la vita, si elimina anche la remota possibilità di tornare ad essere utile alla famiglia.

L’intervista è molto più lunga di quella riportata su Martina News. Per chi volesse vedere la versione completa, può cliccare su questo link.

 

 

 

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