Vent’anni fa in Via D’Amelio una Fiat 126 veniva fatta esplodere sotto casa della mamma di Paolo Borsellino, giudice del pool antimafia di Palermo. Era andato a prendere la madre per portarla ad una visita medica. L’auto scoppiò e con lui morirono anche alcuni agenti della scorta.
Oggi sono vent’anni esatti da quando accadde e da allora Paolo Borsellino, missino convinto, è diventato un simbolo, soprattutto per la sinistra. Dice: non si dovrebbe parlare di politica, è mafia. Eppure la politica c’entra, perchè l’omicidio di Paolo Borsellino è un omicidio che rientra in quella famosa trattativa tra lo Stato e la Mafia di cui abbiamo sentito tanto parlare. Sul suo omicidio ci sono stati depistaggi, ci sono state omissioni, sparizioni. La più famosa riguarda l’Agenda Rossa.
In quegli anni il mondo subiva una grande trasformazione. La Guerra Fredda era finita e anche in Italia l’equilibrio politico era mutato. Moriva il Partito Comunista, in quegli anni e in quegli anni nasceva Tangentopoli e veniva smantellata l’Iri. Moriva la Democrazia Cristiana e la mafia aveva bisogno di trovare una nuova sponda politica. Non che la Dc fosse mafiosa, ovviamente, ma la mafia trovava più facile accordarsi con la Dc e non con altri partiti. Nel 1994 nasceva Forza Italia.
Nel giro di pochissimi anni il mondo era cambiato e quindi anche l’Italia ed è sbagliato considerare l’omicidio di Borsellino senza tener conto del contesto.
Ora, dopo vent’anni, lui è diventato un simbolo, l’archetipo dell’eroe che combatte solo una battaglia suicida, ma una battaglia giusta, una battaglia che va fatta.
Dopo vent’anni si è passati dalla “mafia non esiste” a “ammazzateci tutti”. Una bella rivoluzione antropologica, la cui immagine è la folla di Brindisi il giorno in cui fu uccisa Melissa Bassi.
Ma non tutto è andato bene: non solo dei veri responsabili della morte di Falcone e Borsellino non si sa nulla, ma anche l’antimafia è diventata un business. La mafia è stata ridotta, semplificata, tanto da poter entrare nelle teste di ognuno di noi come sinonimo di male, di bestialità, di morte, di cattiveria. La mafia, soprattutto nei racconti di alcuni autori che oggi vanno per la maggiore, è come se fosse il cattivo delle fiabe, l’orco, il mostro, il drago, qualcosa che è male puro, quindi lontano, distante, che non ci appartiene. I mafiosi sono “loro”, e noi siamo i buoni. Loro sono diversi antropologicamente, noi non siamo come loro. Per combatterla, quindi, servono gli eroi, non è roba per persone normali: per uccidere il drago serve San Giorgio.
Eppure, una lettura più disincantata, più critica, più vicina ai fatti, se vogliamo, ci aiuta a farla Riccardo Orioles, storico collaboratore di Pippo Fava, giornalista ucciso dalla mafia. Fu invitato qualche anno fa a Martina Franca dall’associazione “Partiti a Parte“. Secondo lui la mafia è l’estremizzazione di un modello di affari, un modello ultraliberista che si sbarazza della concorrenza con la violenza e che fa accordi con chi può avvantaggiarli. La mafia non spara per piacere ma per guadagno, la mafia non è un mostro ma un atteggiamento, un attitudine a trasformare i diritti in privilegi. Limitare il racconto ai tratti folkloristici, come il giuramento sui tre santi, il ripudio delle parentele, l’acquisizione di una nuova famiglia, significare spingere ancora più lontano da noi questo fenomeno che è invece diffusissimo e lo si può incontrare ogni volta che scegliamo di stare zitti, ogni volta che non interveniamo quando davanti a noi succede una piccola ingiustizia. La mafia si combatte ogni giorno, impedendo al prepotente di parcheggiare in doppia fila, pretendendo trasparenza dalla Pubblica Amministrazione, partecipando attivamente alla vita sociale e politica del proprio territorio.
La mafia si combatte creando un’alternativa al sistema.
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