La sensazione che si prova a venir via da una Taranto infuocata per il caldo e per la manifestazione è quella che si sia perso il senso. La sensazione è che non sia ancora maturata in tutti la consapevolezza della condizione. Migliaia di operai sono scesi in piazza, oggi, a Taranto, non solo lavoratori dell’Ilva e dell’indotto, ma anche operai di altri stabilimenti: abbiamo trovato qualcuno dell’Itn di Martina Franca che è sceso a manifestare per solidarietà.
I due cortei arrivano a Piazza della Vittoria quasi contemporaneamente. Ad aspettarli sotto al palco i segretari generali dei sindacati confederali e i sindaci della provincia.
C’era anche Franco Ancona, con fascia e gonfalone, accompagnato da Gianfranco Palmisano e dal vicepresidente del Consiglio Comunale Giuseppe Cervellera.
Gli operai che abbiamo avuto modo di intervistare sono sembrati tutti concordi nell’affermare che se i problemi ci sono, sono dipesi dalla gestione statale dell’azienda, quando si chiamava Italsider. Da quando è arrivato Riva, invece, le cose sono iniziate a migliorare. Il lavoro non si tocca, il lavoro non si tocca, il lavoro non si tocca.
Uno slogan ripetuto all’infinito, da tutti gli spezzoni del corteo. Sotto il palco arriva anche il gruppo degli operai che hanno deciso di “desindacalizzarsi”, ovvero di lasciar perdere i sindacati “servi di Riva“. In pochissimi minuti hanno preso il controllo del palco e hanno messo da parte i sindacati confederali. Chi è rimasto, anche perchè circondato da un cordone di giornalisti e di telecamere, è Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom Cgil che, un po’ in polemica con i compagni di Taranto afferma che un servizio d’ordine fatto come si deve non avrebbe permesso al tre ruote di avvicinarsi al palco.
Ecco la sensazione, nelle parole degli operai che su altre testate danno per certo aver aderito ai Cobas, cosa di cui non siamo certissimi, una sensazione che traspare da interventi in cui si dicono contrari alla chiusura, contrari alla dirigenza, contrari ai sindacati ma favorevoli alla magistratura. La sensazione è quella di vedere una moltitudine di persone perse, di lavoratori che non vogliono perdere il lavoro, ma che non sanno come mantenerlo, che sanno che la fabbrica uccide e continuerà ad uccidere, che presi ad uno ad uno ti diranno che l’unica soluzione è la chiusura, ma che in piazza, tra gli altri, si manifesta contro.
Contro tutti.
Anche contro i sindacati, che avrebbero potuto intervenire prima sull’ambientalizzazione, prima della Todisco, prima della sentenza, all’inizio, proprio perchè se tutelano il lavoratore, devono tutelarne la salute.
La sentenza della magistratura tarantina sembra aver interrotto uno schema, un riprodursi costante di dinamiche che non hanno favorito nessun tipo di cambiamento. L’Ilva che uccide, che colonizza l’immaginario, che ingombra lo sfondo, anche mentale, dei cittadini della provincia. Non c’è alternativa, sembra, il gigante d’acciaio è una certezza all’orizzonte. Una certezza di lavoro, malattia e morte.
Gli operai questo lo sanno, ma marciano per il lavoro, difendendo Riva, nonostante poi caccino i sindacati dal palco accusandoli di esserne servi. La verità è che interrotto lo schema non si trovano soluzioni. Landini ha le idee un po’ più chiare: l’azienda deve investire subito per ridurre l’inquinamento. Ma in mezzo a migliaia di orfani, le sue parole vengono coperte dagli slogan.
Due notizie piccole, a margine. In mezzo ai metalmeccanici incontriamo un amico ingegnere. Gli chiediamo cosa ci fa in piazza e ci dice di essere stato assunto all’Ilva, come tecnico. Venti giorni fa. Ma teme di non lavorarci mai.
E poi Cecilia Mangini, regista, documentarista, colonna portante della cultura italiana, sul palco, tra gli spintoni, con il caldo, con un microfono in mano. Commenta così: “Quello che sta accadendo è bellissimo“. E sorride.
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