Alberto Camerini, quarant’anni da “Rock’n’Roll Robot”

*di Vincenzo Salamina e Domenico Carriero

Quest’anno ricorrono i 40 anni dall’uscita dell’album “Rudy e Rita”, contenente la hit “Rock’n’Roll Robot”, caposaldo del percorso artistico di Alberto Camerini, l’Arlecchino del Rock’n’roll”, e della musica anni ’80. 

Alberto, in quale contesto personale e musicale si sviluppa l’incisione dell’album “Rudy e Rita”?

“Rudy e Rita” venne registrato nel 1981, secondo album per la CBS in un contesto euforico e meraviglioso. Fabrizio Intra, direttore artistico della CBS, mi ha lasciato totale libertà. Venivo da quattro album fortunati, facevo sessanta concerti all’anno con la mia band, che riuscii a portare in studio con me. Mi ero appena sposato ed era nata una bambina meravigliosa, Valentina. Ero andato in viaggio di nozze in America ed avevo visitato la sede di NY della CBS in 52nd Street, il mitico grattacielo Black Rock. Roberto Colombo, mio partner produttore dell’impresa, era un mio compagno di banco del Liceo. Il disco prima era andato inaspettatamente benissimo, dalle prime tremila copie stampate arrivò a 33000 copie. Registrammo ancora al Mulino in aprile 1981 con Piero Bravin che era stato il fonico di tutti i miei quattro dischi precedenti. L’atmosfera era magica. La canzone “Rock’n’roll Robot” piaceva a tutti, subito. Il successo fu grande.

La copertina del disco è molto particolare, con il tuo volto in primo piano su entrambi i lati: pitturato in giallo, con il nome Rudy, da un lato e in un cuore rosa trafitto, col nome Rita, dall’altro. Che significato avevano queste due facce della stessa copertina? Chi erano Rudy e Rita?

La copertina fu scelta da Fabrizio Intra che incaricò Camilla Santi, figlia di un architetto e amica di mia sorella. Molto femminile e molto grafica. I nomi Rudy e Rita li scelse Fabrizio Intra perché mi piaceva molto lo ska e “Rudy don’t care” è il titolo di una famosa canzone degli Specials, gruppo londinese di ska

Nell’album uno dei tuoi brani più famosi, “Rock’n’Roll Robot”, unico singolo estratto dall’album. Che novità ha introdotto questo brano nel panorama della musica italiana?

“Rock’n’Roll Robot” arrivò al primo posto della hit parade RAI a Ferragosto e terzo nella classifica di “TV Sorrisi e Canzoni”. Forse, ma non sta a me dirlo, piacque la novità del sound elettronico, batteria elettronica e sintetizzatori, accoppiata e chitarre rockabilly. Anche l’immagine ebbe molta importanza, il costume colorato, i pantaloni rossi, il Gibson Les Paul vissuto al collo, la pettinatura all’americana, o meglio all’inglese, ma molti artisti hanno avuto successo in quel periodo anche se bruttini o somiglianti a camerieri di Grand Hotel

In diverse canzoni dell’album citi Arlecchino, astronauta, robot. Tu stesso, con questo album, sei stato soprannominato “l’Arlecchino del Rock‘n’roll”. Cosa rappresenta per te Arlecchino?

Arlecchino è la mia maschera, il mio ruolo. L’avevo scoperto anni prima andando ad una scuola di mimo e teatro, e rimasi folgorato da “Arlecchino Servitore di Due Padroni” del Piccolo Teatro di Strehler con Ferruccio Soleri Arlecchino. Ero intensamente appassionato, studiai tutto quello che c’era da studiare, libri, musiche del ‘600, imparai a memoria la parte di Arlecchino Soleri. Arlecchino rappresenta un immigrato, parla con tre voci, viene dal paese del Carnevale. Io ero arrivato nel 1962 dal Brasile… Arlecchino è stato un personaggio di enorme fama e successo in Europa dal ‘500 alla Rivoluzione francese, copiatissimo da tutti i pagliacci di campagna, ovunque. Altro che immigrato. In realtà attori professionisti che recitavano a corte, il massimo possibile nel mondo dello spettacolo.

“Ha dentro anche un computer e quante cose sa, Un terminale video che t’informerà, Lui lavora duro, tu libera sarai”: così cantavi in “Rock‘n’Roll Robot”. Dei testi che presagivano come avremmo convissuto assieme ai robot e all’elettronica che stavano, nel 1981, iniziando ad entrare nella nostra vita quotidiana. Oggi sei sorpreso da quella tua visione del mondo di allora?

Sì, abbastanza. In realtà sono stato involontariamente un profeta, inconsapevole ed istintivo. Certo ero informato ed avevo letto libri di sociologia, da Herbert Marcuse “L’Uomo a una Dimensione” a Marshall McLuhan “Gli Strumenti del Comunicare”, Erich Fromm “L’Arte di Amare” ma da lì ad arrivare alla fanta(stica)scienza di oggi… sarebbe stato impossibile crederci. Pensa che internet comparve nel 1996, per me e Silvia, qui in Italia, ma solo dal 2010 ci siamo resi conto di come sia indispensabile.

Nel disco anche un brano con musica elettronica in stile medievale, “Miele”, lato B del 45 giri “Rock’n’Roll Robot”. Perché un brano musicalmente particolare in quell’album, che ha il lato “Rudy” molto rockeggiante?

Perché la musica e le parole di quella canzone fanno parte dello spettacolo di Ferruccio Soleri “Arlecchino e gli Altri”! Il Piccolo Teatro di Milano… 

Nel disco anche “Il ristorante di Ricciolina” in cui torni sulle tematiche del cibo (ricordiamo anche “Gelato metropolitano” del 1977 e “Maccheroni elettronici” del 1982). Come sei riuscito a coniugare musica e cibo, argomenti apparentemente distanti?

Beh, è tipico della maschera di Arlecchino occuparsi prima della pancia e poi del cuore, non essendo proprio un sex symbol ma un vecchio pagliaccio mingherlino. E senza tempo.

Ricordiamo anche “Rock rap”, che in realtà era più un pezzo rockabilly, quando in Italia non si parlava proprio di questo genere che sarebbe esploso dopo qualche anno. Anche qui sei stato visionario?

Visionario è una bella parola. Mi piace avere visioni. Ascoltavo molta musica (ancora oggi) e il rap Old School di Grand Master Flash e Harbie Hancock dell’album “Chamaleon” mi piaceva molto. Black America. E gli Stray Cats, band di rockabilly.

Tra i musicisti che suonarono anche Alberto Radius, alla chitarra elettrica, e Roberto Colombo, alle tastiere. Quanto fu importante Colombo per il tuo avvio di carriera e per la tua affermazione?

Radius lo chiamò Colombo, io non lo vidi nemmeno purtroppo perché dormivo sulla moquette dello studio. Ma sono molto onorato della sua presenza. E’ il chitarrista italiano che ha il suono migliore, ha un vibrato spettacolare. Poi io e Roby Colombo lo adoravamo perché da ragazzini, al Liceo, eravamo andati a vedere la Formula Tre al Piper a Milano ed eravamo rimasti colpiti. Un volume mostruoso, alla Hendrix. Bravissimi, senza il basso…

Il disco fu realizzato per lo più con un Rock’n’roll elettronico prodotto da sintetizzatori. Con quali strumenti, e quale percorso musicale, nasce il suono di “Rock’n’Roll Robot”? 

Innanzi tutto va detto che avevo il guitar synth della Roland, una maxi pedaliera, con basso e archi pilotati dalla chitarra elettrica, con la quale inventai “Rock’n’roll Robot”. Roby Colombo aveva alcuni sintetizzatori monofonici pop, un Yamaha monofonico. Nessuno, nemmeno la PFM aveva il polifonico Moog. Credo avessimo anche un Moog classico ma non ne sono sicuro. Colombo e Bravin registrarono le parti polifoniche una parte dell’accordo alla volta per poi unirle e le sequenze rallentando il nastro (Ampex 16 piste) per poi accelerarlo. Pionieri rudimentali. Io avevo un tastierino pop Yamaha per le tastiere, ricordo un suono fatto da archi e organo sovrapposti e un piano clavicembalo. Dovete chiedere a Colombo che strumenti usasse. Io ho 

portato l’ampli Marshall, usavo il Gibson Les Paul DeLuxe con i P90 e la mia Martin acustica. Comunque Colombo chiamò il suo chitarrista classico di fiducia per le parti di chitarra classica.

Grazie mille Alberto per averci fatto conoscere ancora di più “Rudy e Rita” a quarant’anni dalla sua uscita.

Grazie a voi e un saluto ai lettori di valle d’Itria News.

*Vincenzo Salamina e Domenico Carriero sono appassionati di musica e conducono un programma su Youtube chiamato Music Challenge (che potete seguire qui). Con ValleditriaNews condividono amichevolmente le interviste a musicisti e artisti noti o meno della scena musicale italiana.

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