Una settimana fa il Sole 24 Ore ha diffuso l’annuale classifica sulla qualità della vita nelle province italiane, un rito annuale in cui viene reiterata come un mantra la favola di un nord felice e un sud depresso. La classifica viene fatta attraverso 90 indicatori oggettivi raggruppati in 6 domini. Ogni anno cambia. Ogni anno però il risultato è scontato: si vive meglio al nord, si vive peggio al sud.
La provincia di Taranto perde tra posizioni, è 99sima su 107 province. Alcuni indicatori sono provinciali, altri riguardano il comune capoluogo. Se si perde qualche minuto in più, però, nella classifica emerge tutta la contraddizione del metodo di valutazione. Ad esempio siamo 14simi per la qualità dell’aria (!) ma ultimi per consumi di farmaci per malattie croniche, siamo secondi in classifica per la qualità delle strutture ricettive, ma l’indicatore del trasporto pubblico riguarda solo i km percorsi all’interno della città capoluogo. Sono numeri, che messi in fila, formano una profezia che si autoavvera.
Per il Nuovo Quotidiano di Puglia online ho chiesto un pare a Claudia Sanesi, segretario generale della Camera di commercio di Taranto, che da anni è impegnata in un processo multidisciplinare per tirare fuori la provincia dall’angolo in cui ci siamo/hanno cacciati. Il suo parere è semplice: i dati fotografano una situazione oggettiva, ma soggettivamente, davvero, come ci sentiamo? Provo a tradurre: ok, siamo al 99simo posto, e quindi? La classifica viene redatta secondo indicatori scelti altrove, che non tengono conto, ad esempio, che qui da noi la qualità dell’alimentazione, quella delle reti sociali, quella dell’ambiente, è diversa. Siamo 82simi per la spesa sociale, calcolata in euro pro capite, ma la nostra rete famigliare è diversa da quella del Trentino o della Toscana, senza contare il costo di un pasto, che varia dal nord a sud. Non c’è un indicatore che, ad esempio, conta quanti km di spiaggia libera abbiamo a disposizione, o la distanza media dal primo lido. Ma mi fermo qui, perché altrimenti rischio di cadere nel qualunquismo.
Se provassimo a fare sintesi di quanto abbiamo appreso, ci sono due punti fondamentali, quindi.
Il primo riguarda il set di indicatori che utilizziamo per farci giudicare: abbiamo visto che sono decisi altrove. Il secondo punto fondamentale è cosa ce ne facciamo di questi dati. La classifica del Sole 24 Ore, per quanto opinabile, ci fornisce dati oggettivi (ovvero forniti dalle Pubbliche Amministrazioni o basati su rilevazioni) che fotografano la realtà. Ma il chiaroscuro della foto può essere interpretato in molti modi diversi: può essere troppo chiaro, troppo scuro, i volti si vedono più o meno bene, le ombre sono più o meno lunghe. Dipende da quello che si vuol fare coi dati diffusi. Perché un conto sono i numeri, un conto è come vengono messi in fila. La classifica, che reitera un’immagine di sud affaticato, che arranca, è organica a una visione particolare della qualità della vita, che però non è stata decisa democraticamente, ma imposta dall’alto verso il basso (su questo tema, ad esempio il BES offre invece l’opportunità di autodeterminarsi).
Se quei numeri, messi in fila così, giustificano alcune azioni politiche anche legate agli investimenti, nel frattempo però dovrebbero essere presi in considerazione come indicatori di performance delle politiche locali. Usare i dati e non farsi usare da essi è il modo migliore. Ma quanti amministratori pubblici hanno davvero studiato i novanta indicatori?
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