Il video diffuso sulla nostra pagina Facebook di un vicolo del centro storico di Martina Franca in cui rimbombano i bassi ha raggiunto in una settimana oltre 600mila visualizzazioni, e diverse decine di commenti. Alcuni di questi sono di utenti di altre città d’Italia, che confermano che la situazione è fuori controllo ovunque. La maggior parte, però, sono di martinesi che polarizzano la discussione tra il diritto di riposare e “altrimenti Martina è morta”.
Tempo fa, Ferdinando Boero, docente di zoologia prima all’Unisalento e ora alla Federico II di Napoli, ricordava come i primi tempi in Puglia, da genovese, in una Porto Cesareo che d’estate decuplica gli abitanti, raccontava di un amministratore che difendeva un piano di espansione edilizia contro “il niente”. “Il niente è bellissimo“, replicava il docente, racchiudendo in questa frase un concetto che supera con semplicità il problema della “città morta“, che alcuni ancora utilizzano per difendere la movida fuori controllo. Il “niente” di Boero è quell’equilibrio tra uomo e natura che in Puglia si manifesta in tutta la sua magnificenza, la più bella delle ricchezze.
Questo “niente” fa venire in mente il concetto di “città morta“. Sarebbe opportuno definire con precisione cosa si intende per “città morta“, la quale sembra appartenere da sempre ad un immaginario giovanile (ammetto di averlo detto o pensato migliaia di volte), ma non è questo lo spazio. Non si può però evitare di far notare che molti di coloro che agitano la paura della “città morta” sono gli stessi che subiscono nel silenzio l’assenza di servizi pubblici, la malaburocrazia, i soprusi dei prepotenti, ecc. Andare a bere un gin tonic forse può essere l’unico spazio di libertà o di felicità che ci si può concedere. Ma perché una città – o una litoranea – non sia “morta” è necessario riempire tutto lo spazio con locali dove si servono alcolici, oppure possiamo pensare a dei limiti?
Oscar Iarussi, nel suo editoriale straordinariamente lucido, si dice preoccupato della deriva di una Puglia caricaturale, che ha trasformato la tradizione – o quelle sacche di cultura arcaica sopravvissute al cannibalismo liberista – in una sorta di macchietta. D’altronde, non è caso che Michele Emiliano ha trasformato da fabbrica in sagra l’organizzazione elettorale, arrendendosi alla comoda narrazione di una regione che offre il mare, lu sule e le orecchiette da mangiare all’ombra di un trullo, mentre qualche anziano è vestito con la coppola e conduce un ciuccio.
La Puglia – come i nostri centri storici – è ridotta a una scenografia della commedia dell’arte i cui personaggi sono gli influencer, i quali, però, non hanno altra colpa che sfruttare al massimo la natura e gli algoritmi delle piattaforme social.
Perché questa narrazione funzioni, però, occorre ridurre al minimo il rumore di fondo, le contraddizioni, le storie distoniche, tutto quello che mette a repentaglio l’idea che se vieni in Puglia puoi vivere sempre in vacanza. Contraddizioni come le questioni ambientali e sociali di Taranto, l’impatto della produzione di energia di Brindisi, la trasformazione del territorio e della produzione a causa della Xylella, la criminalità organizzata, la sanità pubblica ridotta a una groviera, i Comuni senza personale, ma anche l’innovazione tecnologica, le buone pratiche sociali, la cultura che offre al panorama nazionale personaggi – per limitarci alla sola Martina Franca – Renzo Rubino, Mario Desiati e Donato Carrisi.
I reel e le stories impongono una narrazione ad una dimensione, dove al massimo c’è spazio per una polarizzazione tra due opposti. La movida senza regole o una città morta, il consumo di alcol senza limiti e di musica dozzinale o usciamo in un’altra città. “Costretti ad andare via” minaccia qualcuno commentando il video di MartinaNews, ma non perché non c’è lavoro, ma perché non c’è divertimento.
Questa polarizzazione è una semplificazione a cui solo le menti semplici possono abboccare. Commercianti e residenti dei centri storici dovrebbero stabilire una nuova alleanza fondata sul limite, sul compromesso e sul benessere comune, consapevoli che gli Enti chiamati a regolamentare non hanno gli strumenti culturali o legislativi per gestire questa mutazione. Un limite al rumore, al consumo di alcol, al numero di avventori? Tutto si può fare, ma con la Pubblica Amministrazione che non ha più fondi, chi paga i controlli? Senza controlli le regole non sono che lacci stretti ai polsi degli onesti.
Iarussi non è il primo a porre il problema. Stefano Cristante, docente di Sociologia della Comunicazione all’Unisalento, nella ricerca “La parte cattiva dell’Italia“, ricostruiva una narrazione del Meridione divisa tra la cancrena della criminalità organizzata e il mare cristallino. Quello che si trova nel mezzo non trova spazio, o lo trova con difficoltà, non solo sui tg nazionali, ma anche sui quotidiani locali, come rileva anche il direttore della Gazzetta, vittime anch’essi della crisi dell’informazione. O una città morta oppure i giovani che consumano alcol nei centri storici.
Nella narrazione bidimensionale trovarsi davanti a bivi del genere è normale, ma occorre essere consapevoli che questi sono trappole mentali, semplificazioni utili solo a far abbabiare la folla. La realtà ha una complessità che un reel di Instagram fatica a contenere, e prima che questa affermazione venga letta come una critica ai social, lo è invece solamente ad un pubblico ignorante e a una classe politica senza idee che ne asseconda le voglie.
Occorre cambiare strada, sia per i motivi che Iarussi spiega in maniera semplice e precisa, sia perché il turismo che consuma le nostre città come fossero giostre aperte h24, non è controllabile, e per questo occorre dare dignità ad altre narrazioni. Solo così si può proseguire nel percorso di emancipazione anche identitaria, per un benessere che tenga insieme la sostenibilità sociale, economica e ambientale.
(La foto fa riferimento a un fatto di cronaca di qualche anno fa, ma è stato difficile trovare qualcosa che non rischiasse di offendere qualcuno. Quel rosso è solo salsa)
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