Al Sud più pensionati che occupati. Ma chi produce le ricchezze del nord?

Ci siamo. Il sorpasso è avvenuto: al Sud ci sono più pensionati che occupati. Lo dice la Cgia di Mestre, in un report pubblicato nei giorni scorsi. Come riporta il comunicato stampa: “Se a livello nazionale il rapporto ormai è di uno a uno, nel
Mezzogiorno, invece, il sorpasso è già avvenuto; stiamo parlando del confronto tra il numero delle pensioni erogate è quello degli occupati. Se in Italia il primo è pari a 22.772.000 e il secondo ammonta a 23.099.000, nelle regioni del Sud e delle Isole le pensioni pagate ai cittadini sono 7.209.000, mentre gli addetti sono 6.115.000
“.

Secondo il rapporto, realizzato incrociando dati Istat e Inps, in Puglia nel 2022 ci sarebbero stati 1.493.000 di pensionati, a fronte di 1.267.000 di occupati. La provincia di Taranto è tra le ultime dieci, per saldo negativo, registrando 219.000 pensionati a fronte di 162.000 occupati. Milano, ovviamente, è in cima alla classifica. La provincia meneghina ha 1.114.000 di pensionati a fronte di 1.486.000 occupati.

Non è necessario essere un sociologo per immaginare le conseguenze di questo fenomeno, con la maggioranza della popolazione che vive grazie al lavoro di una minoranza. Il fenomeno, secondo la Cgia, si spiega da un lato con l’invecchiamento della popolazione (si vive di più, perché si vive meglio – a Martina Franca nel 2023 abbiamo festeggiato 7 centenari e a Montemesola una nonnina ha compiuto 111 anni), ma anche con una forte presenza di lavoratori irregolari. Chi lavora a nero non solo fa concorrenza sleale a chi rispetta le regole, ma di fatto approfitta del welfare pagato da chi non evade le tasse. Di fatto sono parassiti che, se fino a poco tempo potevamo permetterci di sostenere, ora è tempo invece di invocare una stretta sui controlli e una maggiore attenzione.

Se l’inverno demografico è così accentuato, però, sarebbe opportuno andarne a ricercare le cause anche altrove. Secondo i dati diffusi dall’Istat ad ottobre 2023, la popolazione giovanile in Italia (dai 18 ai 34 anni) è sempre di meno, ma la maggior flessione la si registra al Sud: “Il Mezzogiorno d’Italia presenta una perdita accentuata di popolazione giovanile. Attualmente, la quota di giovani (18-34 anni) è maggiore nel Mezzogiorno (18,6%) rispetto al Centro-nord (16,9%), ma nel primo caso la flessione è molto severa (-28% dal 2002). Si prevede che nel lungo periodo (2061) gli ultra-settantenni saranno il 30,7% della popolazione residente nel Mezzogiorno (18,5% nel Centro-nord)“.

L’Istat analizza il fenomeno, attraverso anche altri fattori, come l’età media di costituzione di nuclei famigliari autonomi, ma anche i percorsi di studi. Secondo quanto rilevato, i giovani del Mezzogiorno sono più istruiti: “Negli ultimi anni è aumentata la propensione agli studi universitari, soprattutto nel Mezzogiorno: qui nell’a.a. 2021-22 si registrano 58 immatricolati per 100 residenti con 19 anni (56 nel Centro-nord); 47 iscritti ogni 100 19-25enni (41 nel Centro-nord); 22 laureati (anno solare 2022; I e II ciclo) ogni 100 23-25enni (19). Le immatricolazioni aumentano soprattutto nelle Regioni con alta disoccupazione e basso Pil pro-capite (fra il 2010 e il 2022: Sicilia +15,6 punti; Sardegna +13,6; Calabria +10,9; di contro: Lazio +8,4; Lombardia +5)“.

Il problema, però, è che quasi un meridionale su tre porta le sue competenze al nord: “I percorsi universitari dei meridionali sono spesso più lenti e caratterizzati da una significativa “emigrazione studentesca”, sia all’iscrizione (il 28,5% dei meridionali si iscrive in atenei del Centro-nord), sia alla laurea (39,8% in atenei del Centro-nord), sia nel post-laurea (dopo 5 anni solo il 51% lavora nel Mezzogiorno). È un paradosso, ma nel medio-lungo periodo, ciò potrebbe alimentare una deprivazione ulteriore di capitale umano con competenze avanzate, indispensabile per il Mezzogiorno“. Ma anche: “Nel Centro-nord le tendenze attuali sembrerebbero prefigurare un certo rallentamento della decrescita, per l’effetto congiunto di flussi migratori positivi e di una leggera ripresa della natalità, da attribuire soprattutto alle nascite da genitori stranieri. Tali aspetti presentano tendenze opposte nel Mezzogiorno, dato il trend migratorio negativo e i tassi di natalità e fecondità in decremento“.

Se a questi dati si sommano quelli economici privati, la situazione peggiora. Basti considerare, ad esempio, che chi va al nord a studiare è nella maggior parte dei casi sostenuto dalla propria famiglia che investe i propri capitali di fatto verso economie lontane. Il nord avanza anche perché ha minori costi rispetto al Mezzogiorno. È l’altro paradosso.

L’emigrazione giovanile, in particolare quella qualificata, fa il paio con le difficoltà delle aziende nella ricerca di personale specializzato. Un’azienda con una forte propensione all’innovazione troverà più possibilità di sviluppo in Lombardia, per la presenza di persone capaci e istruite – magari in atenei del Sud – che in Puglia, a parità di condizioni di partenza. Un cane che si morde la coda.

Mentre i dati dicono che il Sud si sta svuotando, sembra nasca, come reazione, soprattutto dopo la pandemia, una certa idea del rimanere, raccontata in maniera approfondita nel volume “La restanza” dell’antropologo calabrese Vito Teti. Un certo filo invisibile, emotivo, sentimentale, che lega chi va via al proprio paese d’origine, ma che impegna anche chi rimane e resiste, non in maniera passiva: “Teti rifiuta entrambi questi racconti e propone un’idea problematica della restanza, priva di ogni nostalgia passatista: un restare inteso non come immobilismo, apatia, rinuncia, ma quale scelta consapevole di “cura” dei luoghi di origine e di chi vi abita; progetto di resistenza e rigenerazione; una restanza come stile di vita, una pratica etica e civile, che si muove tra concretezza e utopia“.

Ma un ruolo importante nello sviluppo della propria terra d’origine ce l’hanno anche coloro che vanno via, per un po’ o per sempre. Pensate ad esempio che a Molfetta un intero quartiere è stato costruito grazie alle rimesse degli emigrati. Ma l’apporto non è solo economico, anzi. Si tratta di relazioni, conoscenze, opportunità. Più di un terzo dei nostri lettori ci legge dal Nord, o dall’estero, e questo significa che anche chi è andato via rimane legato alla propria terra. Anzi, siamo convinti – ma questa è solo una percezione personale – che non vede l’ora di trovare lo spazio e l’occasione per contribuire allo sviluppo della comunità di partenza.

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